Il termine "mirofora" significa "portatrice di
mirra", e con esso ci si riferisce alle donne delle quali i
Vangeli testimoniano la presenza sul Golgota e alle quali viene
rivolto il primo annuncio della risurrezione. Esse sono testimoni
di un avvenimento attestato dai quattro evangelisti: l'apparizione
di angeli (due secondo Luca e Giovanni; uno secondo Matteo e
Marco). Altri hanno già sottolineato la curiosità
del fatto che siano state delle donne le prescelte come prime
testimoni della risurrezione di Gesù: è noto infatti
che, nella società del tempo, da un punto di vista
giuridico le donne erano talmente considerate che una loro
testimonianza in un tribunale non era ritenuta valida! Risulta
quindi più che interessante voler approfondire le
motivazioni che hanno portato la tradizione bizantina a dedicare
una domenica del tempo pasquale proprio a queste donne. Una chiave
di lettura può essere fornita dal fatto che il brano degli
Atti che viene letto durante la Divina Liturgia (At 6, 1-7) narra
l'istituzione dei sette diaconi, così che le mirofore
diventano in qualche modo precorritrici di questo servizio
(significato del termine greco diakonia), avendo curato e
servito Gesù nella sua esistenza terrena. Il diaconato,
inteso come servizio ordinato, non ha mai conosciuto soluzione di
continuità in oriente, al punto che la liturgia bizantina
assegna al diacono un ruolo decisamente più significativo
che non la liturgia latina. È inoltre degno di nota il
fatto che il più antico eucologio bizantino, il famoso
codice Barberini gr. 336 dell'VIII secolo proveniente dall'Italia
meridionale, riporta ancora la preghiera per l'ordinazione di una
diaconessa, ministero, questo sì, caduto oggi in disuso
anche nella tradizione orientale. La lettura evangelica di Marco
ci mostra l'esercizio della diakonia operato sul corpo di
Gesù crocifisso. Così anche Giuseppe di Arimatea si
assume i suoi rischi per prendersi cura del corpo di Gesù:
visto che la pratica romana era di lasciare i corpi dei crocifissi
decomposi sulla croce, Giuseppe decide di rompere gli indugi e di
presentarsi davanti a Pilato per chiedere il favore di poter
recuperare il corpo senza vita di Gesù e potergli prestare
una decorosa sepoltura. Attendere il regno non è per nulla
un atteggiamento di inattività. Giovanni è l'unico a
dirci (Gv 19, 39) che insieme a Giuseppe c'era Nicodemo, quello
stesso che, essendosi recato di notte a parlare con Gesù,
si era sentito dire che avrebbe dovuto rinascere: ora si aggiunge
a Giuseppe di Arimatea portando con sé aloe e mirra in gran
quantità. Anche le mirofore, tre gioni dopo, avevano con sé
i consueti aromi per completare le onoranze funebri che il
sopravvenire della Pasqua giudaica non aveva consentito di fare in
tempo utile. Al Lucernario dei Vesperi del sabato sera, dopo le
prime sette strofe del secondo tono che celebrano la risurrezione,
si cantano le strofe proprie delle mirofore. La prima strofa è
attribuita ad Anatolio, ma attraverso gli studi di Wilhelm Christ
possiamo con fondatezza affermare che più che a un
ipotetico innografo, il termine ha una origine gerosolimitana e si
riferisce alla zona di provenienza; essa dice: Prendendo con
sé gli aromi le mirofore giunsero ai primi albori alla
tomba del Signore. Ma trovano ciò che non sospettavano,
parlavano tra loro timorose della pietra che era stata rimossa: e
dove sono i sigilli del sepolcro? Dove, le guardie di Pilato che
dovevano custodirlo rigorosamente? Si fece iniziatore delle donne
ignare un angelo sfolgorante che disse loro: perché cercate
con lamenti il vivente, colui che da la vita al genere umano? È
risorto dai morti il Cristo Dio nostro, perché è
onnipotente, e dona a tutti noi vita incorruttibilità,
illuminazione e la grande misericordia. Se i vangeli apocrifi
si soffermano a descrivere il momento della risurrezione, qui essa
emerge in maniera solo indiretta. Ci sono alcuni indizi (pietra,
guardie, sigilli), più in generale si potrebbe dire che
qualcosa non torna, è fuori posto, e l'intelligenza umana
delle donne, al di là di sin troppo facili ironie, non
riesce a cogliere la spiegazione di queste domande che emergono.
Anche qui c'è bisogno di un dato rivelato: un giovane
dall'aspetto sfolgorante, angelo in quanto veicolo di una
comunicazione diretta di Dio all'uomo, ha il compito di annunciare
il nucleo essenziale della nostra fede, ovvero la risurrezione dai
morti per l'onnipotenza di Dio di quello stesso Gesù che
era stato crocifisso, era morto, ed era stato sepolto proprio in
quel luogo. Cosa significa "è risorto"? Non il
ritorno alla vita precedente, che comunque, come sono state le
risurrezioni di Lazzaro e del figlio della vedova di Nain, sarebbe
inesorabilmente terminata prima o poi nella morte definitiva.
Significa che il cadavere di Gesù di Nazaret, nella sua
unicità personale e storicità, viene vivificato da
una vita che, pur non perdendo le caratteristiche proprie della
vita umana, non potrà più essere distrutta dalla
morte: l'umanità di Gesù, il suo corpo, condivide
l'incorruttibilità della vita divina. La seconda strofa
è attribuita ad un certo Kùmulas: insieme ai più
dotti specialisti in materia, dobbiamo confessare di non sapere
pressoché nulla di questo innografo, se non che è
direttamente citato come autore di alcune strofe (idiomela, cioè
testo originale ma musica derivata da un altro inno) della
domenica delle mirofore e di un inno molto bello cantato sempre
nel tempo pasquale la domenica del paralitico e che commenteremo a
suo tempo. Ecco il testo: Perché, o discepole,
mescolate gli unguenti alle lacrime? La pietra è stata
rotolata via, la tomba è vuota. Guardate la corruzione
calpestata dalla vita, i sigilli che danno chiara testimonianza,
le guardie degli increduli pesantemente addormentate. Ciò
che è mortale è stato salvato dalla carne di Dio:
l'ade geme, e voi correte con gioia a dire agli apostoli: il
Cristo che ha ucciso la morte, il primogenito dai morti, vi
precede in Galilea. È l'angelo che parla, e di fronte
alla tristezza, allo sconcerto e al dubbio, con la certezza della
fede gli indizi di prima diventano le prove della risurrezione.
Non è una visione consolatoria, o fine a se stessa, perché
subito si è investiti di un compito: la buona novella deve
essere annunciata, prima di tutto agli apostoli. La terza strofa è
opera dello stesso Kùmulas: Di buon mattino le mirofore
raggiunsero sollecite il tuo sepolcro, cercandoti, o Cristo, per
profumare il tuo corpo immacolato; ma ammaestrate dalle parole di
un angelo, annunciavano agli apostoli le prove della gioia: è
risorto l'autore della nostra salvezza, spogliando la morte e
donando al mondo l'eterna vita e la grande misericordia. La
strofa che si canta dopo il Gloria è opera di san Cosma
l'Innografo, vescovo di Maiuma, antica città vicino
all'odierna Gaza, che morì nel 760 e che viene considerato
uno dei più grandi poeti liturgici greci: Le mirofore,
raggiunte la tua tomba, vedendo i sigilli sul sepolcro ma non
trovando il tuo corpo purissimo, gementi vennero in fretta
dicendo: chi ha rubato la nostra speranza? Chi ha preso un morto
nudo, cosparso di mirra, unico conforto della Madre? Oh, ma come è
stato messo a morte colui che dona la vita ai morti? E come è
stato sepolto colui che spoglia a morte l'ade? Risorgi dunque, o
Salvatore, per il tuo proprio potere, al terzo giorno come hai
detto, per salvare le nostre anime. Attraverso un
procedimento retorico, viene ipotizzata una illogicità che,
riprendendo le reazioni emotive delle mirofore alla vista del
sepolcro vuoto, tende ad indirizzare la loro ricerca. Il verbo
trovare ha un significato particolare, visto che Luca lo utilizza
per ben due volte consecutive all'inizio del brano e che anche
nelle strofe ha la sua rilevanza: il corpo di Cristo risorto non
può essere "trovato", occorre fidarsi dei segni
e, ancor di più, delle persone che ce lo testimoniano. Tra
le strofe che si cantano durante la processione rogazionale è
significativa quella che segue il Gloria: Giuseppe reclamò
il tuo corpo immacolato e lo depose in un sepolcro nuovo: tu
dovevi uscire dalla tomba come da una camera nuziale, o Cristo che
hai infranto l'impero della morte per aprire agli uomini le porte
del paradiso. Fa la sua comparsa Giuseppe di Arimatea, che
con il gesto compiuto il venerdì santo si è
guadagnato un posto particolare nella tradizione bizantina. Qui è
interessante l'associazione di immagini tra il sepolcro e il
talamo nuziale, così come quella tra le porte degli inferi
che vengono calpestate da Gesù e le porte del paradiso che
si riaprono per accogliere i morti che Gesù ha strappato
all'ade. Le strofe che vengono cantate agli Aposticha, così
come i tropari di congedo, non sono originali della domenica delle
mirofore: la strofa al Gloria è stata cantata solennemente
durante il Vespero del Venerdì Santo nel momento in cui,
nelle chiese di tradizione greca, si depone il corpo di Gesù
dalla croce e lo si avvolge in una sindone, deponendolo sul
sepolcro dove sarà venerato dai fedeli fino al mattutino di
Pasqua; i tropari sono stati cantati una prima volta alla
conclusione del Vespero del Venerdì Santo e successivamente
nel Mattutino del Sabato Santo, mentre il resto delle strofe
cantate agli Aposticha è costituito dai famosissimi
stichirà pasquali che sono tradizionalmente attribuiti a
san Giovanni Damasceno. Nelle strofe che, nel Mattutino,
seguono la salmodia occorrente, rileviamo alcune immagini
interessanti: Tu non hai impedito che fosse sigillata la
pietra del sepolcro, e così risorgendo hai offerto a tutti
la roccia della fede. Portando gli aromi per la tua sepoltura al
mattino le donne giunsero furtive al sepolcro, temendo la
prepotenza dei giudei, e prevedendo la vigilanza dei soldati. Ma
la loro debole natura vinse quella forte, perché il loro
animo compassionevole era stato gradito a Dio. La pietra del
sepolcro, che sembrava rinchiudere la vita annichilendo ogni
speranza, diviene con la Risurrezione la roccia della fede, al
punto tale che la debole natura delle donne, preoccupate da
prepotenza e arroganza, sovrasta gli interlocutori, guardie,
giudei o apostoli che siano. Il Canone delle Mirofore è
un poema di Andrea di Creta. Dalle brevi note biografiche
disponibili, sappiamo che sant'Andrea nacque a Damasco nel 660
circa. All'età di quindici anni, raggiunta Gerusalemme,
decise di entrare nel monastero di San Saba e del Santo Sepolcro.
Teodoro, patriarca di Gerusalemme, nel 685 lo inviò quale
suo delegato al VI concilio ecumenico (Costantinopolitano III) per
appoggiare la condanna del monotelismo. Durante tale soggiorno
Andrea ricevette l'ordinazione diaconale e gli fu affidata la
gestione di un orfanotrofio e di un ospizio per anziani. Nell'anno
700 circa, fu eletto vescovo di Gortina, sede metropolitana
dell'isola di Creta. Andrea è famoso per i sermoni (ne sono
giunti a noi una cinquantina, tra cui alcuni che hanno sviluppato
la devozione mariana anche in occidente), ma soprattutto per i
Canoni da lui composti, tra i quali spicca il grande canone
penitenziale che si canta nel corso della quaresima e che è
formato da più di duecentocinquanta strofe. Il canone delle
mirofore ha una ottantina di strofe e possiamo raggrupparle, per
comodità di lettura e per tentare una sintesi, in base a
tre temi principali. Il primo di questi temi è incentrato
sulla passione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù.
Dalla prima ode: Sei stato crocifisso nella carne, tu che sei
impassibile nella natura del Padre. Onoro la tua croce, glorifico
la tua sepoltura, canto e venero la tua risurrezione. Hai
assaggiato il fiele, o dolcezza della Chiesa, eppure hai fatto
sgorgare per noi l'incorruttibiltà del tuo costato. Sei
stato computato tra i morti, o Salvatore, e hai risuscitato i
morti: hai appena gustato la corruzione, ma in nessun modo hai
conosciuto dissoluzione. Sin dalla prima frase emerge una
cifra teologica che denota, attraverso la precisione del
linguaggio, l'evoluzione del dibattito cristologico: anche
all'interno di un inno liturgico, si sente la necessità di
ribadire la profonda unità dell'ipostasi del Verbo, che pur
essendo Dio, patì nella carne in Gesù Cristo, Figlio
di Dio. Croce, sepoltura e risurrezione non sono separabili:
averlo fatto, nel corso della storia, ha portato in diversi
momenti a privilegiare gli aspetti forse più umani, che
privati però della risurrezione rischiano di ridurre il
Cristo ad un esempio morale da seguire. Interessante è poi
l'utilizzo del verbo computare (eloghìste): è
un verbo puntuale, che nell'Antico Testamento ha una significativa
occorrenza nel Levitico, dove è usato dai sacerdoti per
dichiarare che un sacrificio era valido. In questo contesto il suo
utilizzo tende ad evidenziare la morte reale e non apparente di
Gesù. Ma c'è forse una valenza ancora più
significativa, sebbene indiretta, perché l'utilizzo più
famoso del verbo computare è in Gn 15, 6 quando Abramo,
riceve da Dio la promessa dell'Alleanza, "Abramo credette e
gli fu computato a giustizia". Nel testo ebraico compare il
verbo "aman" da cui deriva amen, e una tradizione
rabbinica traduce "e Abramo pronunciò il suo amen".
Allora il significato di questo amen, che è associato al
computo, è far stare saldo, trovare saldezza. Aman è
poggiarsi su qualcosa di saldo e di sicuro. Credere non è
astrattezza: Abramo si fida e fonda la sua vita sulla roccia della
Parola di Dio. Anche noi fondiamo la nostra fede sulla parola
dell'annuncio dei testimoni. Nella terza ode emergono alcuni
temi con riferimenti nuovi: Inchiodate le mani alla croce, o
Gesù, sottraendo tutte le genti dall'errore, le hai
chiamate a conoscere te. L'agnella stando presso la tua croce, o
Gesù, gridava piangendo: dove vai o Figlio, dove te ne vai,
o agnello immolato per tutti? Sei risorto, o Gesù, il
nemico è stato spogliato, Adamo ed Eva con lui sono stati
liberati dai vincoli della corruzione, grazie alla tua
risurrezione. Se Gesù è stato identificato con
l'agnello da Giovanni Battista, l'accostamento a Maria del
corrispondente agnella lo si trova con certezza nell'omelia
pasquale di Melitone di Sardi, vescovo e martire alla fine del
secondo secolo. La croce è l'apice dell'autorivelazione del
Dio Amore, e nelle sue braccia allargate possiamo sperimentare un
nuovo modo di conoscere. Se il peccato aveva fatto percepire la
nudità ad Adamo ed Eva, nella Risurrezione è il
nemico ad essere spogliato, mentre l'uomo è liberato dalla
tunica di pelle, la sua veste corruttibile, e all'uomo nuovo viene
donata la veste dell'incorruttibilità. Nella quarta ode
il tema della lotta tra Cristo e la morte viene ulteriormente
approfondito. Con la croce hai imprigionato il ventre
dell'ade, hai fatto risorgere i morti e hai abolito la tirannide
della morte: perciò noi, nati da Adamo, celebriamo adoranti
la tua sepoltura e la tua risurrezione, o Cristo. O Salvatore
nostro, che nel tuo beneplacito per le tue viscere di
misericordia, sei stato confitto in croce e ci hai riscattati
dalla maledizione paterna, sciogli i vincoli delle mie molte
colpe. O Salvatore, l'ade incontrandoti nelle profondità è
stato amareggiato, vedendo che quanti un tempo aveva inghiottito
prevalendo, ora è stato costretto a renderli e che le
regioni sotterranee venivano perquisite, spogliate e depredate dei
morti. Il ventre insaziabile dell'ade, che divorava con lo
scorrere inesorabile del tempo ogni uomo che moriva, viene
imprigionato dalla croce in una sorta di dieta permanente; e al
ventre insaziabile del regno dei morti vengono contrapposte le
materne viscere di misericordia che, riscattandoci dalle nostre
innumerevoli colpe, ci riaprono le porte del regno di Dio. Gli
inferi sono definitivamente sconfitti e costretti a restituire le
loro prede, custodite da secoli, come in un'amnistia generale: le
carceri vengono attentamente ispezionate affinché nessuno
possa essere dimenticato, affinché nessuna preziosa dracma
possa essere inavvertitamente lasciata giacere coperta dalla
polvere del peccato. Nella quinta ode ritorna il tema della
veste, cui si aggiunge quello del buon samaritano, rileggendo in
chiave pasquale elementi che avevano contraddistinto il cammino
quaresimale. O mio Salvatore, vestendoti di me, tu mi hai
spogliato della veste antica che mi aveva tessuta il seminatore
del peccato. Foglie di fico mi aveva cucito il peccato, perché,
consigliato dal serpente, non avevo custodito il tuo immacolato
comandamento, o Salvatore. Il Cristo che viene da Maria è
giunto, ha versato olio sulla mia anima ferita dai pensieri
ladroni, e l'ha risanata. La creatura nuova, rinata con il
Cristo risorto, si è rivestita di lui con il battesimo,
come ci dice san Paolo. Le foglie di fico, che avevano costituito
la tunica cucita dall'uomo per coprire le nudità del
peccato, ora vengono definitivamente abbandonate. Il peccato
resta, ma il Cristo (l'Unto) che viene da Maria versa sulla nostra
anima ferita e derubata dai ladroni l'olio della sua misericordia;
non dobbiamo inoltre dimenticare l'estrema somiglianza tra olio
(èleon) e misericordia (èleos),
somiglianza che i Padri greci, e di conseguenza gli innografi,
hanno molto utilizzato. La sesta ode, pur non aggiungendo temi
nuovi, rappresenta in modo ancora più evidente la lotta tra
Gesù e l'ade, il regno dei morti: L'ade è morto:
coraggio, figli della terra! Il Cristo appeso al legno ha rivolto
contro di lui la spada ed egli giace morto: è stato
spogliato e depredato di quanti deteneva. L'ade è stato
spogliato, coraggio, o morti! I sepolcri sono stati aperti,
sorgete! Così grida a voi il Cristo dall'ade, lui che è
venuto per redimere tutti dalla morte e dalla corruzione. I morti
che un tempo, prevalendo, avevi inghiottito, o ade, ora te li
richiedo, ridammeli! Così a te grida il datore di vita e
Dio che è venuto per liberare tutti dal tuo ventre
insaziabile. Il Signore è risorto, spogliando il nemico, e
ha ricondotto tutti i prigionieri che gli ha sottratto, e anche il
primo creato, Adamo, che ha risuscitato, perché è
Dio compassionevole e amico degli uomini. Cristo, disceso
agli inferi, chiama i morti a gran voce per risvegliarli dal sonno
che fino ad allora era sembrato senza speranza. Il Redentore che,
nostro parente più prossimo secondo quanto previsto dalla
legge ebraica, ci riscatta da colui che ci imprigionava, reclama
la sua proprietà a partire dal primo Adamo. Come in un
ben studiato crescendo, nella settima ode affiora il tema del
rinnovamento dell'immagine con cui l'uomo era stato plasmato nel
racconto creazionale di Gn 2: Tu che come amico degli uomini
vuoi salvare dall'errore tutti coloro che hai plasmato, hai
sopportato di essere inchiodato alla croce, per rinnovare,
mediante la tua carne, o Salvatore, la tua immagine ricoperta
dalle passioni, e, distrutto l'ade, hai fatto risorgere con te i
defunti. È stato un tuo beneplacito patire tutto ciò
per i nostri peccati: perciò anche al ladrone hai aperto le
porte del paradiso, o Salvatore. Tu hai fatto risorgere dalla
tomba il terzo giorno il tempio distrutto del tuo corpo, come
avevi promesso. Cosa avete visto di incredibile per non credere al
Cristo? Non ha fatto forse alzare gli infermi con la sua parola?
Non ha forse salvato tutti? Vi convincano almeno i soldati e i
risorti dai morti. Se non lo hanno visto risorgere, se non se ne
sono accorti, allora come hanno potuto capire che era stato
rubato? Vi convincano almeno questa pietra e le bende funerarie
del Cristo. La tomba è realmente sigillata: come dunque è
risorto se non perché è Dio? Vi convincano coloro
che sono risorti e si sono fatti vedere da molti. Il corpo
del Risorto, tempio ricostruito in tre giorni, ricrea l'uomo e lo
rende degno di varcare di nuovo le porte del paradiso, come è
successo al buon ladrone, che nella tradizione bizantina è
più profondamente chiamato il ladro teologo. Se la teologia
è primariamente il riconoscimento della presenza di Cristo
che opera in modo nuovo ed efficace nella storia (teologo è
colui che sa pregare, dicono i Padri), allora i segni operati da
Gesù durante la sua vita terrena ora si rivelano in tutta
la loro portata, e riacquistano luce definitiva attraverso lo
splendore della Risurrezione. Tutto ci porta a riconoscere la
realtà della risurrezione dai morti di Gesù, Cristo
e Signore. L'ottava ode non fa altro che proseguire e svolgere
il tema della realtà che ci manifesta la presenza di Cristo
risorto: perfino la pietra, i sigilli, le bende e le fasce
sepolcrali, le stesse guardie attonite sono il segno di una nuova
vita. Chi ha rotolato con le sue mani la pietra dal sepolcro?
Chi ha fatto seccare il fico? Chi ha risanato la mano inaridita?
Chi ha saziato un giorno la folla nel deserto? Chi se non il
Cristo che fa risorgere i morti? Chi ha dato la luce ai ciechi,
purificato i lebbrosi, drizzato gli storpi e camminato a piedi
asciutti sul mare come su terra ferma? Non forse il Cristo Dio che
risuscita i morti? Chi ha risuscitato dalla tomba un morto di
quattro giorni, e il figlio della vedova? Chi, come Dio, ha
drizzato il paralitico costretto a letto? Grida la pietra stessa,
gridano i sigilli che avete messo, aggiungendo guardie per
sorvegliare il sepolcro: Cristo è veramente risorto e vive
nei secoli. La nona ode, attraverso una serie di immagini
contrapposte, ci aiuta ad approfondire l'abisso tra quello che
diamo a Cristo (non possiamo non identificarci con i Giudei a cui
queste strofe sono rivolte) e quello che da Cristo riceviamo: Il
ladrone che sulla croce ti riconobbe Dio, tu lo hai fatto erede
del paradiso spirituale. Per noi sei stato fatto oggetto di sputi
e schiaffi dai trasgressori della Legge, tu che sul Sinai avevi
scritto le tavole della Legge per il tuo servo Mosè. Per
noi sei stato abbeverato di aceto e fiele, tu che ci hai dato il
tuo corpo e il tuo sangue prezioso come cibo e bevanda della tua
eterna vita. Sei stato computato tra i morti, tu che ai morti dai
la vita; sei stato deposto in una tomba, tu che svuoti le tombe.
Ripercorriamo ora il Canone raggruppando le strofe che
ricordano Giuseppe di Arimatea. Egli è degno di essere
ricordato perché avvolse in bende il tuo Corpo, o
Cristo, e depose te, la salvezza, in un sepolcro nuovo;
perché hai accolto Dio tra le braccia, come fece
il vecchio Simeone accogliendo Gesù presentato al tempio,
Insieme alle mirofore e agli apostoli, onoriamo Giuseppe, il
nobile consigliere discepolo, zelante per la pietà,
perché ha calato dalla croce il corpo del Signore e con
fede lo ha sepolto. È Giuseppe che, dopo averti
avvolto in una sindone, o Cristo, ti ha deposto in un sepolcro, e
dopo aver cosparso di aromi il tempio distrutto del tuo corpo, ha
rotolato una grande pietra all'ingresso della tomba. Questa
stessa pietra era la preoccupazione più grande delle donne
che si avvicinavano al sepolcro, cercando anch'esse, come
Giuseppe, il regno di Dio. Il loro obiettivo era quello di
prestare le ultime e più accurate cure alla salma del
Maestro, in un gesto di pietà e venerazione. Ma si sentono
dire dall'angelo: O donne, mirofore, perché ormai
affrettarvi? Perché portate gli unguenti profumati al
vivente? È risorto il Cristo, come aveva detto. Cessino le
vostre lacrime e si mutino in gioia. In queste donne siamo
chiamati a riconoscere il limite che è in ciascuno di noi:
siamo sempre preoccupati di cose che, prese in se stesse, sono
anche giuste, ma che alle volte sono molto lontane dai disegni di
Dio. In loro è evidente la non conoscenza di come sarebbe
andata a finire, così non dobbiamo stupirci se la
misericordia del Signore sceglie di manifestarsi in modo molto
diverso da quello che noi pensiamo essere il più giusto e
razionale. Il non riuscire a cogliere la novità della
manifestazione di Gesù Risorto non ci deve però far
dubitare della risurrezione stessa. Secondo una logica puramente
umana, dove la ragione tenta di sopraffare l'amore, il trovare il
sepolcro vuoto perché non c'è nessun cadavere
potrebbe far sembrare inutile il gesto stesso dell'andare al
sepolcro, ma è proprio a partire da un gesto di amorevole
compassione, di pienamente umana affezione, che le mirofore andate
al sepolcro possono sentirsi dire dall'angelo l'annuncio della
risurrezione. Le strofe che si cantano al Lucernario del Vespero
della domenica sera fanno risaltare con chiarezza questa tensione.
Dunque tra i morti è la vita? Sotto terra è
tuttora il sole senza sera? Il coro delle mirofore facendo lamento
esclamava: venite, corriamo in fretta al santo sepolcro a vedere.
Ma scorgendovi un angelo risplendente, restarono stupite e
smarrite. E questi, facendo cessare il loro lamento, gridò:
è risorto il datore di vita, non abbiate timore, o pie
donne. All'alba il coro delle donne, prima del sole si
diede a cercare il Sole che nella tomba era tramontato. Ma
l'angelo radioso si rivolse a loro: è sorta la luce che
illumina quanti dormono nelle tenebre! Portate l'annuncio ai
discepoli, astri dell'aurora, mutate l'abbattimento in gioia, e
cantate in coro, con cuore che non dubita, facendo risuonare
l'annuncio della pasqua gaudiosa, della salvezza del mondo.
Quando le donne si avvicinano alla tomba, il sole sta per
sorgere, ma esse non realizzano che il Figlio di Dio è
risorto, e che non è nemmeno nella tomba. Esse cercano
Gesù, e tentano di fare qualcosa che sembra al di là
delle loro possibilità. Ma non possono non
compiere questo gesto di amore. Forse la Chiesa, nella sua
pedagogia liturgica, vuole farci capire che anche noi dobbiamo
cercare Gesù più di ogni altra cosa. Come per le
mirofore, anche nella nostra vita ci sono ostacoli, pietre che
sembrano inamovibili, situazioni nella quali sembra impossibile
trovare Gesù, incontrarlo, essere in comunione con Lui,
vivere ciò che Egli ci chiede di vivere. Ma noi dobbiamo
guardare a Chi cerchiamo, non agli ostacoli che troviamo sulla via
di questa ricerca, nella certezza che l'amore che ci spinge a
cercarlo prima o poi riconoscerà la via che ci porta a
Cristo. Le mirofore ci possono dire anche che, a volte, Gesù
può non essere dove lo stiamo cercando. Esse erano
ragionevolmente certe che Gesù fosse lì: era morto
in croce e lo avevano deposto in quella tomba. Lo smarrimento che
provano di fronte all'angelo è evidente, ma non rimangono
attaccate al loro punto di vista, accettano di ritornare sui
propri passi assumendosi il compito che Dio assegna loro
attraverso l'angelo. È un compito da affrontare nella
letizia, il dolore e il pianto si devono tramutare in gioia, ma
l'annuncio evangelico non è privo di difficoltà: gli
stessi discepoli fanno molta fatica a credere. Non dobbiamo
dimenticarci che noi, prima di incontrare il Risorto, andiamo a
cercare il Crocifisso. È vana la nostra speranza di
lasciare la croce nel sepolcro vuoto, perché il corpo del
Risorto, come abbiamo visto nella domenica di Tommaso, è
segnato dalle piaghe dei chiodi e della ferita al costato. Anche
se dopo la Pasqua i digiuni e le prostrazioni sono terminate,
prove, tentazioni e sacrifici non conoscono il calendario
liturgico. L'ultima cosa che le mirofore ci dicono, recando
l'annuncio dell'angelo, è che Gesù ci aspetta in
Galilea, dove potremo di nuovo incontrarlo. Anche noi, come i
discepoli, abbandoniamo continuamente Gesù e preferiamo
poltrire nella sicurezza delle nostre case invece che farci carico
della diakonia nell'amore che animava le mirofore, uscite
di casa nella notte. La Chiesa, attraverso la voce delle mirofore,
ci chiede di metterci di nuovo in cammino, per far rivivere in noi
il ricordo e il fervore del nostro primo incontro con Gesù.
È questo cammino che tiene vivo il desiderio, che consente
alla memoria dell'incontro di non affievolirsi. D'altra parte
abbiamo una traccia da seguire in questo cammino, perché
lui "ci precede in Galilea", e questa traccia sono
proprio le persone che Dio mette quotidianamente sul nostro stesso
cammino: dapprima con gli occhi della fede e dell'amore, e poi
anche con gli occhi del corpo, noi raggiungeremo la certezza incrollabile della sua presenza: "Là voi lo
vedrete….".
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